“Oggi è proprio la neuroscienza che sostiene la necessità di prendere molto seriamente le emozioni. Le nuove scoperte scientifiche sono incoraggianti. Ci assicurano che se cercheremo di aumentare l’autoconsapevolezza, di controllare più efficacemente i nostri sentimenti negativi, di conservare il nostro ottimismo, di essere perseveranti nonostante le frustrazioni, di aumentare la nostra capacità di essere empatici e curarci degli altri, di cooperare e stabilire legami sociali, in altre parole se presteremo attenzione in modo più sistematico all’intelligenza emotiva – potremo sperare in un futuro più sereno”.  Così la pensa  Daniel Goleman nel suo “Intelligenza emotiva”.

È pur vero che le aziende difficilmente possono permettersi di basare la valutazione delle competenze solo sull’intelligenza emotiva, ma è anche vero che uno sforzo in questo senso andrebbe fatto, se non altro per verificare e migliorare il clima aziendale.

Ma un’azienda che dà spazio alle emozioni è un’organizzazione evoluta, matura e disposta a mettersi in discussione proprio là dove i nervi sono più scoperti: la capacità di relazione, di entrare in empatia, di ascoltare davvero e di valorizzarne i talenti delle persone.

Nelle mie esperienze  in azienda mi sono sempre chiesta come mai ai manager venisse raramente data la possibilità di crescere dal punto di vista emotivo, mentre spesso non mancavano le formazioni tecniche o manageriali. Perché al leader performante ma poco amato dai collaboratori, non viene offerta la possibilità di migliorarsi nella relazione? E ancora perché i momenti di ascolto non vengono istituzionalizzati e previsti in agenda? Forse  la valutazione delle soft skill non trova ancora abbastanza spazio nelle pieghe organizzative?

O forse questo aspetto è collegato al fatto che i vertici delle aziende sono ancora molto maschili e quindi poco propensi a considerare le emozioni parte integrante della loro vita professionale e personale?

Nelle situazioni che vivo, le donne in questo ambito, sembrano essere più disposte a riconoscere l’importanza degli aspetti emotivi e naturalmente  portate a collegarli al raggiungimento degli obiettivi, mentre gli uomini, più razionali e metodici, faticano a considerare la connessione tra benessere emotivo e risultati.

Non è questione di insensibilità ma piuttosto di innata differenza di approccio. Ciò che mi consola però è assistere a una sempre più frequente capacità nelle donne di supportare con risultati quantitativi la convinzione che il prendersi cura delle proprie persone è strettamente legato al raggiungimento del successo dell’organizzazione. E vedere che, rassicurati dai numeri,  sono sempre più numerosi i manager uomini che si rendono conto che anche le emozioni possono dare un contributo prezioso in azienda.